Il vassoio della Fata e altri oggetti sensibili

Ecco, io volevo fare un post a metà tra “La caffettiera del masochista”, saggio sul design degli oggetti fondamentale per ogni laureato in Scienze della Comunicazione degno di questo titolo, e “La sicurezza degli oggetti” di A.M. Homes, raccolta di racconti minimalisti sull’abbondanza di cose e la carenza di affetti. Poi, come al solito, deraglio dagli obiettivi e faccio come mi viene. E dunque vi racconterò del vassoio della Fata, il più prepotente degli oggetti di casa mia: gode di vita propria, ha una sua essenza totalizzante e una sua personalità sfaccettata. Le sue origini risalgono a 12 anni fa e, per me che periodicamente butto tutto, è un’era geologica. Seguitemi un attimo.

Due chili e mezzo di design, da New York a Milano est

Il vassoio della Fata ha una lunga storia. Era una giornata fredda e ventosa del 2009, il 25 marzo (o forse il 26, ero comunque fusa per il fuso orario dopo volo intercontinentale con scalo a Londra in fretta e furia) e Cielomiomarito e io eravamo appena arrivati all’Hotel Jolly di New York, pronti a goderci la luna di miele. Rincoglioniti dal viaggio e dai -15 gradi che non ci aspettavamo di trovare in primavera nella Grande Mela, ci rifugiammo in camera per indossare tutte le magliette che avevamo in valigia, una sull’altra, a fare strati protettivi dalle intemperie. E nella nostra angusta stanzetta con vista sui mattoni trovammo sul tavolino un bellissimo  mazzo di rose rosse. «Uh, che carini, questi dell’albergo», pensai, «che fanno un regalo ai novelli sposi». Cielomiomarito, però, trovò appeso alle spine un biglietto: «Benvenuti in America! Totò».
Il consorte ebbe il dubbio che si trattasse di uno scambio di persona. Ma no: Totò, gli spiegai, è un caro vecchio amico di famiglia, un amico fraterno di mio padre che vive negli Stati Uniti da una vita. Voleva darci il Welcome Home. E morta lì.

Inizio del racconto al presente storico

Il secondo giorno di luna di miele, torniamo in hotel sempre più intirizziti dal freddo glaciale dopo aver visitato il Metropolitan Museum e l’Empire State Building e troviamo sul tavolino della sempre più angusta stanzetta fragole e champagne. E io di nuovo: «Uh, che carini, questi dell’albergo, che fanno un regalo ai piccioncini in luna di miele». E Cielomiomarito legge un altro bigliettino: «Viva gli sposi! Totò», pensando immediatamente a una forma di stalkeraggio.

Terzo giorno di luna di miele, ormai definitivamente congelati dopo tour di Manhattan con la tempesta perfetta, torniamo in hotel e troviamo sul letto un pacco sospetto. Apri tu? Apro io? Io, sghignazzando, intimo a Cielomiomarito:«Leggi subito il biglietto!». E lui: «Tanti auguri di felicità! Totò».
Ebbene, dentro quel pacco c’era un UFO, un vassoio di design pesantissimo, due chili e mezzo non spannometrici, ma effettivi. Con l’aria di uno di quegli oggetti dal valore spropositato, costati quanto un’unghia di Damien Hirst. Choc totale: «Mo’ ce lo dobbiamo portare appresso a Miami e fino allo Yucatán? Dove ce lo infiliamo? Lo abbandoniamo sulla cima delle piramidi Maya o paghiamo la franchigia per bagaglio aggiuntivo?».

Una diapositiva:

Per contenerlo e trasportarlo, compriamo apposita valigia supplementare color melanzana tardiva, di un violetto abbagliante, da un abusivo alla Grand Central Station, o giù di lì.

Cielomiomarito intanto si andava convincendo che, nel nostro girovagare tra Stati Uniti e Messico avessimo la CIA alle calcagna. I milanesi, si sa, non sono abituati ai gesti PLATEALI di affetto da parte di perfetti sconosciuti. Come spiegargli che, per Totò, io ero pressoché una figlia adottiva? Come fargli capire che quel MONOLITO DI ACCIAIO PESANTISSIMO era un segno di amore totale? Adesso lo spiego a voi.

 

Questo è il vassoio della Fata

«Questo è il vassoio della Fata», annuncio perentoria di fronte al monolito con una granitica certezza dentro di me: quel “coso”, inutilizzabile per metterci gli stuzzichini o l’insalata o il sushi, avrebbe avuto un ruolo fondamentale a casa nostra, per sempre: il refugium telecomandorum, il contenitore universale non di “neglie”, come si chiamano a Palermo le inutilità che occupano spazio, ma di tutti i telecomandi di televisori, condizionatori, videoregistratori e amenità tecnologiche varie.

Una diapositiva:

Il vassoio della Fata, cioè il vassoio di La Fata: Totò La Fata.
Totò La Fata è un signore nato almeno 84 anni fa a Carini, il paese vicino a Palermo dove c’è il Castello con il celebre fantasma della Baronessa, quella dello sceneggiato. Io non l’ho mai conosciuto di persona, ci ho sempre parlato al telefono. Anzi, prima ancora che con lui, parlavo con la sua mamma, un’anziana signora che con regolarità, ogni due mesi, faceva una telefonata intercontinentale New Mexico – Sicilia, e all’apparecchio diceva: «Pronto? Sono La Fata». Non ha mai avuto un nome la mamma di Totò. E mi faceva sempre ridere. La Fata lui, invece, al telefono chiedeva: «Pronto, c’è Salvatore?». Totò infatti è sempre stato l’unico a chiamare così mio papà, per tutti Saro, o lozioSaro, tutto attaccato.

Quello che so di Totò, me lo ha raccontato papà nelle sue favole delle buona notte. La versione ridotta di questa epopea dei La Fata è questa:

C’erano una volta i La Fata. Erano padre, madre e tre o quattro fratelli. Uno piccolo “scendeva” da Carini a Palermo con un paniere di uova e le vendeva. Uno di mezzo, sapiddu cui (chissà chi), un giorno se ne andò negli Stati Uniti a fare il panettiere. Dell’altro che se ne fece non si sa, non si è mai saputo. Erano tutti buoni, educati, modesti. Totò più di tutti.

LozioSaro e Totò, entrambi Salvatore all’anagrafe, si sono conosciuti nei primi Anni 60, ai tempi dell’Università.

«Studiavamo Medicina e abitavamo in pensione, dalla Signora Cassisi (altro essere mitologico del’epos paterno, ndr). La Signora Cassisi era gelosa di me, non voleva che portassi ragazze e non sapeva fare il caffè, lo faceva ciofeca. Quindi Totò e io ci siamo presi una casa in affitto noi due» ricorda ancora oggi mio padre.

A me già fa strano pensare a mio papà universitario che si compra la Cinquecento giocando a poker, ma il suo ricordo più spiazzante è questo:

«Con Totò avevamo il segnale: quando c’era qualche ragazza e l’altro non doveva disturbare, si metteva il bastone sul balconcino, così l’altro capiva e si andava a fare una caminata (passeggiatina). Per cucinare ogni tanto scendeva da Carini la signora La Fata e ci faceva il sugo per una settimana».

Che ve lo dico a fare, ma io mi commuovo. Anche perché Totò era uno che non si faceva problemi a far capire che «non se la passava bene»: «Una volta avevo un cappotto vecchio di tuo zio e lo stavo buttando» mi racconta papà, ma Totò disse: “Lo prendo io, è ancora buono”. E se lo metteva senza vergogna. Questo è Totò, un bravo ragazzo».

Mio padre si specializzò a Roma in Odontoiatria, Totò continuò a Palermo, diventò pediatra.

Ha fatto il pediatra negli Stati Uniti per 50 anni, ha due figli grandi anche lui, come lozioSaro.

Saro e Totò si sono sentiti al telefono sempre: «Pronto? Sono La Fata» e si sono visti ogni dieci anni, ma sempre in Sicilia, perché mio padre ha avuto paura dell’aereo e in America di andarci non se l’è mai sentita. Quando Saro ha avuto il cancro, Totò chiamava tutte le sere me e mio fratello per sapere: «Come sta Salvatore?» e poi voleva venire in ospedale.

Ora, io non ho mai visto la faccia di Totò, perché tutte le volte che lui è tornato in Italia io ero all’estero e l’unica volta che sono andata in America lui non ce l’ha fatta a raggiungermi. O meglio, non ha fatto in tempo a organizzarsi, perché era in Connecticut a un convegno e non ha trovato il volo. Ma mi ha raggiunto con le rose, le fragole e lo champagne, ma soprattutto con il

 

vassoio della Fata

Tutte le volte che lo guardo, questo oggetto tra gli oggetti di rara inutilità, io capisco che è un simbolo d’amore eterno, che il mio matrimonio è benedetto perché ha l’innocenza di un emigrante che ha trovato la sua fortuna nella semplicità di una vita onesta. Guardo il vassoio e sono certa che nulla, a me e a Cielomiomarito, ci può separare o ci può fare male.
Nei momenti di rabbia penso anche che il vassoio della Fata sarebbe anche una perfetta arma del delitto nel contesto di omicidi incasinati e assassini improvvisati. E solo l’idea mi fa tornare il buon umore. «Pronto? Sono La Fata» e torna il sereno dopo ogni litigio.

Avete anche voi tra gli oggetti di casa vostra un soprammobile che racconta una storia di amore, amicizia e fratellanza? Raccontatemi il vostro bagaglio di esperienze. Io la valigia color melanzana furiosa che conteneva il vassoio della Fata durante il viaggio di nozze ce l’ho ancora nel box. Non riesco a buttare neppure quella…

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